Italia – Cina, andata e ritorno

Cristiano Vergani, Responsabile Ricerca & Sviluppo Deparia Engineering
Cristiano Vergani, Responsabile Ricerca & Sviluppo Deparia Engineering

Già da un paio d’anni alcuni grandi nomi dell’industria statunitense, come Apple e GE, hanno cominciato a riportare in patria molte produzioni dalla Cina: ormai si contano a centinaia gli esempi del genere, dai computer agli scaldabagni e persino articoli a basso costo come piccoli elettrodomestici e articoli sportivi. Ora, anche Italia si comincia ad assistere ad una certa onda di ritorno, le cui motivazioni però non sembrano esclusivamente di tipo economico-logistico come nel caso statunitense.La crescita dei costi determinata dal progressivo aumento delle retribuzioni della forza lavoro cinese (dal 2000 ad oggi cresciute di 5 volte, con un trend costante del 15-20% all’anno) e dei costi di trasporto via cargo (all’incirca triplicati nello stesso periodo) ha la sua bella importanza ma, nel caso dei prodotti italiani, c’è una motivazione ben più importante che fa pendere l’ago della bilancia verso la madrepatria, cioè il valore aggiunto del “Made In Italy”. Il mercato di riferimento per chi produce in Cina non è più principalmente quello statunitense o europeo, entrambi in continua contrazione per quanto riguarda gli articoli di consumo di fascia intermedia, ma quello cinese, dove gli acquirenti che possono spendere qualcosa in più per un prodotto di qualità sono molto sensibili all’”etichetta”. Questo fenomeno non riguarda solamente, come potrebbe sembrare a prima vista, i prodotti di abbigliamento o in genere di moda o di design, dove il “Made in Italy” ha sicuramente un richiamo fortissimo sul consumatore cinese ma, in realtà, investe un po’ di tutto.

I Cinesi naturalmente sono stati i primi ad accorgersene e, a parte i soliti fenomeni di contraffazione, sono moltissimi i prodotti fatti realizzare da ditte cinesi operanti in Italia ed esportati in Cina, soprattutto nel tessile, nella pelletteria e nelle calzature. Ultimamente, però, sta emergendo un fenomeno nuovo: imprenditori cinesi che non si limitano più a produrre da noi per sfruttare l’appeal dell’origine ma che, per prodotti a maggiore contenuto tecnologico o di alto artigianato, si rivolgono direttamente a produttori italiani o rilevano in tutto o in parte realtà produttive italiane, come è successo ad esempio nel caso di un paio di marchi storici del settore motociclistico. La cosa sta prendendo piede anche in diversi altri settori e, non vi sorprendete troppo, anche in campo HVAC: pare proprio che anche le apparecchiature per il trattamento dell’aria si vendano molto meglio sul mercato cinese se di provenienza italiana. Di questi tempi, capita sempre più di frequente di vedere delegazioni di discreti signori orientali che visitano i nostri distretti industriali veneti e marchigiani, con l’intento di partecipare o rilevare alcuni nostri prestigiosi marchi di settore.

Tutto questo può naturalmente fare piacere nell’ottica di dare prezioso ossigeno alla nostra industria ma, non vi sembra assurdo e anche un po’ vergognoso che debba essere l’imprenditoria cinese a valorizzare il “Made in Italy”, mentre noi non riusciamo a fare altro che chiudere produzioni e mettere sempre più lavoratori in cassa integrazione? Forza, i consumatori Cinesi vogliono prodotti italiani di qualità prodotti in Italia, non in Romania, Bulgaria, Slovenia e meno che mai in Cina… vediamo cortesemente di provvedere, grazie.

 

1 commento

  1. Creare le condizioni economiche per facilitare il rientro delle aziende che hanno dislocato all’estero è una priorità .Come riduzione di imposte del 50% , riduzione del costo dell’energia ,Coinvolgimento dei Maggiori esponenti del Design dell’Engineering Italiano a impegnarsi per costituire o supportare scuole per la formazione e sviluppo dell’arte e cultura tra giovani,valorizzazione del patrimonio artistico facilitando la formazione di cooperative di giovani laureati, moratoria triennale per tutte le aziende dall’applicazione di sanzioni su eventuali inadeguatezze ambientale ,ma con l’obbligo di adeguarsi entro il periodo di 3 anni ,

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