Visioni future “in cima al mondo”

Un modello di sviluppo sostenibile che mette a sistema risorse ambientali e culture locali, opportunità economiche e potenzialità tecnologiche: la strada scelta dalla Groenlandia inizia dalla progettazione degli insediamenti urbani.

di Martino Paradiso

 

 Questo primo scorcio di XXI secolo pone all’umanità intera – perciò anche al mondo della tecnica – interrogativi di portata planetaria rispetto ai quali il mondo scientifico, per la prima volta dall’avvento dell’era industriale, non è in grado di offrire risposte convincenti. Fra questi il cambiamento climatico è sicuramente la questione più importante. Il cosiddetto «riscaldamento globale» è una realtà riconosciuta dalla totalità della comunità scientifica internazionale che, in larga parte, attribuisce all’attività antropica la responsabilità circa le cause ambientali del fenomeno (incremento della concentrazione di alcuni gas e degli aerosol nell’atmosfera, deforestazione delle terre emerse).

È evidente come tali cause siano direttamente riconducibili ad alcuni effetti sistemici del modello economico basato sulla produzione industriale dei beni che, proprio in questi ultimi anni, conosce una diffusione globale interessando nazioni molto popolate, fino a poco tempo fa considerate in via di sviluppo. Di conseguenza, la prospettiva di una rapida transizione verso un diverso modello economico, ambientalmente sostenibile ed esteso a livello mondiale, è estremamente remota. Anche nel caso che l’origine del riscaldamento globale risieda in cause naturali, peraltro tutte da individuare, è comunque poco probabile che le tecnologie a nostra disposizione, anche le più evolute, possano contrastarne gli effetti del global warming almeno nel breve e medio periodo.

Ciò nonostante, allo stato delle attuali conoscenze, è senz’altro ragionevole concentrare le risorse disponibili in azioni mirate a contenere gli effetti di quei probabili fattori di squilibrio ambientale che possiamo controllare. Si tratta di azioni che devono interessare in prima istanza i paesi cosiddetti industrializzati quali, ad esempio, la riduzione del consumo di fonti energetiche che generano emissioni climalteranti. Non possiamo però nasconderci che il principale contributo alla salvaguardia del nostro pianeta dovrà arrivare dalle nazioni le cui popolazioni stanno progressivamente accedendo a condizioni di benessere simili a quelle dei paesi occidentali.

Questo significa che le conoscenze e le tecnologie più evolute, ad esempio in tema di pianificazione territoriale e di gestione consapevole delle risorse energetiche, non possono restare patrimonio esclusivo di una parte, peraltro ormai esigua, della popolazione terrestre. In questo scenario si inserisce il progetto multidisciplinare «Possible Greenland», promosso dal Danish Architecture Centre in stretta collaborazione con le autorità governative groenlandesi.

Perché la Groenlandia?

Sebbene relegata alle estreme latitudini settentrionali del pianeta, questa enorme isola del continente nord-americano presenta molte delle caratteristiche peculiari di un paese in via di sviluppo.

La maggior parte del suo territorio, ampio circa sette volte l’Italia, è desertico a causa dell’estensione dei ghiacciai, che coprono l’82% della superficie raggiungendo uno spessore massimo di circa 3 km. Le uniche zone libere dai ghiacci sono situate in prossimità delle coste, spesso caratterizzate da imponenti rilievi: le reti stradali sono sviluppate solo a livello locale e i principali centri abitati sono perciò collegati via mare e aerea.

L’agricoltura è praticamente inesistente e l’industria locale più sviluppata è legata alla pesca; sul modello danese, le strutture del welfare sono molto sviluppate ma sussistono comunque importanti problemi legati alla scarsa scolarizzazione e alla costante emigrazione dei giovani. Le risorse naturali sono invece notevoli: oltre a una quantità di acqua dolce in grado di far innalzare il livello dei mari di almeno 5 metri, immagazzinata nei ghiacciai, il paese dispone di riserve di petrolio pari a quasi 90 miliardi di barili (poco più della Russia) e cela nel sottosuolo estesi campi geotermici, giacimenti di zinco, piombo, ferro, carbone, molibdeno, oro, platino, pietre preziose, uranio oltre ad almeno un terzo delle riserve mondiali di «terre rare», minerali indispensabili all’industria delle telecomunicazioni.

A questa enorme ricchezza potenziale si contrappone una situazione demografica e climatica unica nel suo genere. I suoi 57.695 abitanti (dato 2012) sono prevalentemente concentrati lungo le coste esposte a sud e sud-ovest, esposte ai venti miti provenienti dal continente americano. Nelle regioni interne e settentrionali, in inverno, si registrano temperature inferiori a -60 °C.

La Groenlandia è perciò un paese praticamente disabitato e in gran parte inospitale, privo di infrastrutture e di rilevanti attività economiche, ma dispone di enormi quantità di risorse naturali strategiche. Infine, ma non meno importante, si trova al centro di uno dei fenomeni più preoccupanti indotti dal riscaldamento globale: lo scioglimento della calotta artica, che si riscalda più velocemente di qualsiasi altra regione del mondo.

Fatta eccezione per le eccezionali condizioni climatiche e demografiche, e considerando anche i pericoli che corre la giovane democrazia locale a causa delle risorse minerarie, il quadro finora descritto potrebbe essere facilmente adattato a un paese in via di sviluppo. La differenza sostanziale risiede nel fatto che la nazione groenlandese ha elaborato un piano di sviluppo socio-economico, mirato ad aumentare il reddito pro-capite e basato su una serie di progetti, fra cui quello dedicato alla «coltivazione» delle risorse autoctone con modalità sostenibili (progetto: TNT Nuuk, Elkiær + Ebbeskov Architects), iniziando dalla qualificazione urbana degli insediamenti, con l’obiettivo di dare corpo a una nuova cultura nazionale, aperta e consapevole. In Groenlandia, lo status quo non è un’opzione.

Insediamenti mininvasivi

La maggior parte della popolazione groenlandese è di origine Inuit. I nativi giunsero sull’isola attorno al XIII secolo occupando le zone costiere, libere dai ghiacci: dediti soprattutto alla pesca di pesci e cetacei e alla caccia di grandi animali terresti, si radunano tutt’ora in villaggi composti anche da pochissime abitazioni. Queste ultime erano costituite da tende realizzate con resti ossei, tronchi e pelli degli animali catturati nel periodo estivo, oppure da rifugi formati da blocchi di neve compatta rivestiti internamente con pelli (igloo).

A causa della loro natura nomade, i nativi non hanno sviluppato una propria tradizione insediativa, tipica delle popolazioni stanziali, che fu introdotta dai coloni danesi grazie alla tecnologia costruttiva basata sull’uso del legno, materiale interamente importato. Nonostante l’esigo numero degli abitanti, queste condizioni hanno condotto a una cronica carenza di abitazioni, alle quali offre risposta un progetto di housing mini invasivo (progetto: Tegnestuen Vandkunsten; Qarsoq Tegnestue; Clement & Carlsen; consulenti: Innuplan; Ramboll).

Lo spazio buffer creato dall’involucro esterno mantiene anche in inverno temperature accettabili, fra 10 e 15 °C, e si presta a un’ampia varietà di usi e attività domestiche, conviviali e artigianali (Tegnestuen Vandkunsten).

Il progetto recupera gli originari principi abitativi locali, primo fra tutti la limitazione dell’impronta a terra delle costruzioni. La natura del suolo e la scarsità di mezzi d’opera è tale che, molto spesso, gli scavi sono effettuati utilizzando esplosivi. I nuovi insediamenti, al contrario, lasciano sostanzialmente inalterato il suolo sottostante: gli edifici e i percorsi interni ai quartieri sono perciò eretti sopra una serie di piattaforme ancorate a terra mediante sostegni puntiformi.

Questo sistema risponde a tre requisiti di minimizzazione dell’impatto dello spazio antropizzato sull’ambiente naturale:

– permettere l’urbanizzazione degli accidentati terreni fra i fabbricati esistenti, aumentando la densità abitativa senza onerose opere di infrastrutturazione, tipiche della cultura architettonica occidentale;

– evitare il frazionamento della proprietà fondiaria, in quanto gli edifici risultano appoggiati al suolo e, perciò, facilmente modificabili e rimovibili, in funzione delle diverse esigenze;

– minimizzare l’impatto ambientale della crescita urbana, mantenendo per quanto possibile inalterate alcune delle caratteristiche del suolo vergine (assenza di recinzioni, permeabilità alle precipitazioni, accessibilità della fauna, etc.).

Il tessuto edificato è perciò basato su fabbricati di altezza contenuta (massimo 3 piani), ben inseriti dal punto di vista paesaggistico e costruiti con sistemi compositi, eco-compatibili e potenzialmente autocostruibili.

Una tenda stabile

Un edificio abitativo in zona artica deve prima di tutto proteggere i propri abitanti dai rigori climatici (a Nuuk, la capitale, si registrano in media -10,5 °C a gennaio e +7,7 °C in luglio) e dalle intemperie (carico della neve, pressione del vento, tenuta all’acqua e all’aria), ma deve anche poter essere costruito in tempi brevi da un ridotto numero di maestranza, non necessariamente qualificate, con strumenti facilmente reperibili e senza l’impiego di mezzi d’opera pesanti. I componenti devono perciò essere leggeri, facilmente trasportabili e movimentabili.

La possibilità di costruire su strutture sopraelevate rispetto al terreno facilita enormemente l’insieme delle operazioni di cantiere. La realizzazione del percorso e delle piattaforme, mediante strutture d’appoggio e portanti in acciaio e pavimentazione in legno, costituisce la prima fase dell’intervento che permette anche la posa delle reti tecnologiche (acqua potabile e reflui, elettricità, etc.) necessarie alle abitazioni e all’attività costruttiva, opportunamente isolate.

La varietà degli elementi architettonici (scheletro strutturale, involucri di prima e seconda pelle, etc.) è limitata, ma i componenti sono concepiti in maniera modulare per consentire numerose, differenti combinazioni: case unifamiliari e doppie case, a schiera o a cluster, co-housing con spazi collettivi, etc.. La struttura portante è interamente composta da prodotti prefabbricati in legno: travature reticolari per lo scheletro principale (passo 210 mm), strutture orizzontali in travetti di lamellare (sezione 410 x 50 mm), rivestimento in pannelli di multistrato impermeabilizzato.

La pelle esterna è formata da due falde inclinate a 45°, a formare un tetto a capanna: è composta da lastre accoppiate in policarbonato (spessore 2,5 mm), con differenti gradi di trasparenza, e da sistemi di captazione solare, tutti appoggiati su traversi in legno (100 x 50 mm); in sommità e lungo le falde sono previsti lucernari e serramenti apribili o fissi, a doppia vetrocamera. Il primo strato d’involucro crea un ampio volume intermedio fra l’atmosfera e gli ambienti interni, uno spazio-buffer nel quale condizioni termiche costanti (T media invernale 10÷15 °C) permettono lo svolgimento delle più diverse attività domestiche (relax all’aperto, accoglienza degli ospiti, giardinaggio e orticoltura, piccole attività artigianali, etc.) vestendo semplicemente indumenti pesanti.

L’alloggio vero e proprio, ispirato alla tradizionale abitativa scandinava, è composto da moduli parallelepipedi, prefabbricati in legno o autocostruiti a seconda delle esigenze. Queste stanze (paqibiq), sovrapponibili e comunicanti fra loro, sono equipaggiate e arredate a seconda delle funzioni di base di un appartamento: cucina e pranzo, soggiorno e riposo, servizi igienici, stoccaggio e locali tecnici, etc.. I paqibiq sono concepiti per offrire la massima protezione rispetto al rigido inverno artico e, anche, alla prolungata durata dell’illuminazione naturale durante l’estate boreale. Opportunamente coibentati ricorrendo a strati isolanti ottenuti dalla lavorazione delle alghe, i paqibiq possono anche fuoriuscire dalla prima pelle per creare il locale d’ingresso o per consentire ad alcuni ambienti, fra cui la cucina e i locali tecnologici, un affaccio diretto verso l’esterno.

Nonostante il clima rigido la ridotta massa termica dell’edificio, le elevate prestazioni termoisolanti del sistema a doppia pelle e le contenute dimensioni dei locali climatizzati contribuiscono a minimizzare il fabbisogno termico. I sistemi impiantistici sono estremamente semplici e tutti basati su fonti rinnovabili:

– moduli fotovoltaici che, durante il periodo estivo conferiscono le eccedenze alla rete, il cui ruolo è indispensabile per fronteggiare il fabbisogno energetico durante la lunga notte polare;

– una pompa di calore alimentata da sonde geotermiche profonde 150÷200 m, che alimenta le superfici radianti a pavimento nei paqibiq e produce acqua calda sanitaria;

– un’unità di ventilazione dotata di recuperatore di calore.

La città delle relazioni

L’accessibilità dal resto del mondo e i collegamenti interni costituiscono un requisito indispensabile per lo sviluppo della nazione groenlandese. La riduzione dell’estensione della banchisa e la convenienza economica delle rotte aeree polari rendono la Groenlandia uno dei potenziali poli di sviluppo del traffico turistico e commerciale fra gli sterminati territori che si affacciano sull’Artico.

La possibilità di transito delle navi grandi navi mercantili fra l’Atlantico e il Pacifico – il “passaggio a nord-ovest” – è una realtà dal 2007. Questa rotta sud/nord consentirebbe di collegare le città portuali di Rotterdam e Shanghai percorrendo soli 16.000 km, in luogo degli attuali almeno 20.000 km, senza impegnare lo Stretto di Suez né il Canale di Panama.

Il traffico aereo intercontinentale, attualmente attestato sull’aeroporto di Kangerlussuaq, distante circa 300 km dalla capitale Nuuk, si sviluppa prevalentemente sulla direttrice est-ovest, fra Europa e America del Nord, lambendo il circolo polare artico. Il potenziale turistico è notevole: oggi, circa il 16% dei viaggiatori che fa scalo nella vicina Islanda, pari a circa 80.000 persone ogni anno, si ferma per trascorrervi una vacanza.

Principale nodo della futura rete dei trasporti è il nuovo terminal intermodale previsto sulla piatta isola Angisunnguaq, nei pressi di Nuuk (circa 15.000 abitanti). Denominato Air+Port, l’intervento (progetto: Bjarke Ingels Group; Tegnestuen Nuuk) sarà composto da un aeroporto intercontinentale e da uno scalo portuale, attrezzati per la movimentazione di passeggeri e merci, strettamente integrati fra loro sotto il triplice profilo della massimizzazione degli investimenti, dell’organizzazione infrastrutturale e del concept progettuale.

L’infrastruttura integrata porto/aeroporto è un innovativo modello urbano che, memore della lezione del progetto per Algeri di Le Corbusier, racchiude tutti gli spazi di lavoro e relazione al suo interno (BIG – Bjarke Ingels Group).

Le stazioni dei due sistemi di trasporto e scambio con il resto del mondo sono simbolicamente schematizzate dall’impianto planimetrico ortogonale. La banchina portuale, posta alla quota inferiore, è eminentemente dedicata alla logistica commerciale, con aree per lo stoccaggio dei containers affiancate da una zona a vocazione industriale per la lavorazione delle merci e la loro raccolta e distribuzione attraverso i vettori locali.

Un enorme edificio lineare, collegato alla terraferma mediante una strada lunga 18 km, scavalca lo scalo merci: al suo interno è prevista la realizzazione di tutti i servizi portuali e aeroportuali. Questo avveniristico hub intermodale è progettato per permettere l’attracco di grandi navi passeggeri, lungo le facciate, oltre all’atterraggio/decollo dei velivoli. La pista è situata sulla copertura, con rampe che consentono lo spostamento degli aerei verso i gate, posti al centro del fronte sud, dove si trova anche la torre di controllo.

Superando gli aspetti meramente infrastrutturali, e anche per effetto delle sue enormi dimensioni, il progetto di Air+Port prefigura un modello di insediamento omnicomprensivo, in grado di restituire quella qualità delle relazioni economiche, sociali e culturali tipiche di una piccola città, con l’intrinseco vantaggio di ospitare questo «luogo degli scambi e delle connessioni» all’interno di spazi protetti dai rigori climatici.

Gli spazi della conoscenza

L’inurbazione, vettore delle dinamiche socio-economiche globali, in Groenlandia trova nella natura un avversario formidabile: dalla preistoria ad oggi, territorio, clima e ambiente hanno imposto alle popolazioni locali una vita nomade e anche la colonizzazione danese ha assunto le caratteristiche di una migrazione temporanea. Lo sfruttamento delle risorse minerarie e l’avvento dell’industria hanno indotto ulteriori fenomeni migratori interni.

In sintesi: movimento e migrazione sono stati e sono tutt’ora un aspetto fondamentale e intrinseco della cultura groenlandese. Lo sviluppo futuro di questa nazione dipende in gran parte dalla sua capacità di rendersi attrattiva non solo nei confronti degli emigranti, ma soprattutto delle nuove generazioni locali.

Il caso di Ilulissat è emblematico: si tratta di una cittadina che conta poco più di 4.500 abitanti, molti dei quali vi si sono trasferiti quando furono chiuse le miniere di ferro dell’isola di Disko. Questo piccolo centro, la cui magra economia trae notevoli vantaggi dal transito delle navi da crociera nel periodo estivo, è stato scelto per la realizzazione di una serie di interventi-tipo che enfatizzano le sinergie fra le risorse sociali, culturali e produttive già presenti, con l’obiettivo di creare luoghi di incontro e scambio fra la composita comunità locale e i turisti, secondo un approccio rigorosamente sostenibile dal punto di vista economico ed ecologico.

Il masterplan (progetto: KITAA Arkitekter, David Garcia Studio, Henning Larsen Architects) prevede la realizzazione di quattro edifici. Il Centro culturale, situato nei pressi della scuola, è uno spazio polivalente dove la popolazione può incontrarsi; mette a disposizione spazi espositivi, una biblioteca e accoglie le residenze destinate agli abitanti più anziani, allo scopo di promuovere una fruizione inter-generazionale.

Per combattere il fenomeno della migrazione degli studenti le evolute tecnologie informatiche dell’Arctic Hub consentono l’insegnamento a distanza (KITAA Architects, David Garcia Studio, Henning Larsen Architects).

Nei pressi del porto sorge l’Harbor Market, destinato a soddisfare le necessità dei residenti come la curiosità dei turisti. Per fronteggiare la cronica carenza di abitazioni e facilitare il soggiorno dei lavoratori stagionali occupati nella pesca, nell’area è prevista anche la costruzione di un insediamento residenziale.

L’Arctic Hub si propone invece di combattere il fenomeno della migrazione degli studenti, che sottrae le risorse migliori alla nazione artica. Si tratta di un centro di formazione dotato delle più evolute tecnologie informatiche, che consentirà lo studio a distanza per gli studenti delle scuole superiori e universitari. Oltre agli spazi destinati alle attività della nuova Facoltà di Studi Glaciali, al suo interno sono previsti fra l’altro un ufficio dell’Unesco e il centro per le informazioni ai turisti.

Sport Plaza è l’arena all’aperto per le competizioni tradizionali: caccia, corsa con le slitte, pesca, pattinaggio su ghiaccio, etc., che coinvolgono abitanti di tutte le età nel confronto con sé stessi e con le rigide condizioni climatiche locali. Situata nel cuore della città, con strutture disposte ai lati di una delle strade principali fra cui una palestra plurifunzionale, è dotata anche di un campo di calcio con dispositivi di protezione invernale del terreno di gioco.