Il D.LGS. 18/2023 – Decreto acque – presenta criticità dal punto di vista terminologico e metodologico che producono conseguenze operative immediate che investono tutti gli attori della filiera.
Il Decreto Legislativo 23 febbraio 2023, n. 18, di recepimento della Direttiva (UE) 2020/2184, sostituisce integralmente il D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 31. Il provvedimento proclama l’adozione di un approccio basato sul rischio per la sicurezza dell’acqua potabile, ma presenta una contraddizione di fondo: una discrepanza terminologica tra normativa europea e italiana che genera ambiguità applicative sistemiche e, soprattutto, tradisce l’essenza stessa dell’approccio risk-based attraverso l’imposizione di parametri numerici uniformi che ignorano la variabilità biologica della suscettibilità individuale.
L’analisi critica che segue evidenzia come gli innegabili progressi introdotti dal decreto – estensione della tutela agli impianti interni, aggiornamento dei parametri chimici, nuova governance delle responsabilità – siano compromessi da un vizio originario di natura terminologica che si propaga generando incertezza normativa e, più gravemente, da uno slittamento metodologico dal risk-based autentico (valutazione contestualizzata) al value-based mascherato (conformità a parametri fissi).
I punti di forza: innovazioni rispetto al D.Lgs. 31/2001
Il decreto introduce miglioramenti significativi che è doveroso riconoscere prima di analizzarne le criticità.
Dall’approccio parametrico alla valutazione del rischio
Il superamento più rilevante consiste nell’introduzione di un modello di valutazione articolato su tre livelli: bacini idrografici (art. 8), sistemi di fornitura (art. 9) e sistemi di distribuzione domestici (art. 10). Il D.Lgs. 31/2001 si limitava al monitoraggio parametrico senza valutazione preventiva dei rischi.
L’articolo 7 introduce l’approccio alla sicurezza dell’acqua basato sul rischio, coprendo l’intera catena dal bacino al rubinetto secondo i Water Safety Plans dell’OMS: non più solo verifica a posteriori della conformità, ma prevenzione attiva attraverso l’individuazione delle criticità potenziali.
Estensione della tutela oltre il punto di consegna
L’innovazione più significativa è l’estensione della valutazione ai sistemi di distribuzione domestici. Il D.Lgs. 31/2001 considerava adempiuto l’obbligo del gestore al punto di consegna (contatore), disinteressandosi degli impianti interni dove possono verificarsi contaminazioni da ristagni, temperature inadeguate e materiali non idonei. L’articolo 10 colma tale vuoto. L’Allegato I, Parte D, introduce parametri specifici per i sistemi interni – Legionella (<1000 UFC/L) e piombo – assenti nel previgente decreto.
Aggiornamento parametri e armonizzazione materiali
Il decreto aggiorna i parametri chimici introducendo bisfenolo A, PFAS e microcistina-LR, e istituisce la watch list per monitorare sostanze potenzialmente pericolose prima della fissazione di valori vincolanti. Gli articoli 11 e 12 introducono requisiti armonizzati per materiali a contatto con l’acqua attraverso elenchi positivi europei.
Questi progressi sono innegabili. Tuttavia, proprio nell’attuazione dell’approccio risk-based proclamato emergono le criticità più insidiose.
La problematica definizione delle responsabilità: il caso GIDI
Il decreto introduce la figura del Gestore della Distribuzione Idrica Interna (GIDI), identificabile nell’amministratore di condominio per gli edifici condominiali o nel titolare della struttura per edifici prioritari. Tuttavia, l’acronimo GIDI – Gestore Idrico Distribuzione Interna – incorpora il medesimo vizio terminologico analizzato in precedenza: “distribuzione interna” anziché “distribuzione domestica”.
Tale imprecisione terminologica non è meramente formale, ma genera conseguenze applicative dirompenti. Se il GIDI fosse correttamente denominato “Gestore Impianti Domestici”, emergerebbe con evidenza che la sua competenza è limitata agli impianti a servizio di locali ad uso abitativo residenziale. Ne consegue che la maggior parte degli edifici classificati come “prioritari” dall’Allegato VIII – strutture sanitarie, strutture ricettive alberghiere, istituti penitenziari, scuole, aeroporti, stazioni – sono in realtà luoghi di lavoro i cui impianti idrici non rientrano nell’ambito applicativo del decreto, rimanendo soggetti alla disciplina della sicurezza sul lavoro con valutazione del rischio biologico considerando la suscettibilità dei soggetti esposti.
Il decreto, usando il termine generico “impianti interni” anziché “impianti domestici”, ha generato un equivoco interpretativo di portata sistemica: si applica agli ospedali? Agli hotel? Alle scuole? Se la risposta è negativa perché sono luoghi di lavoro, l’intero impianto normativo risulterebbe sostanzialmente inapplicabile alla maggioranza delle strutture che si presumeva dover disciplinare. Se la risposta è affermativa, si creerebbe una sovrapposizione normativa insostenibile con doppio binario regolatorio e parametri contrastanti (1000 UFC/L del decreto versus 100 UFC/L delle Linee Guida 2015 applicabili nei luoghi di lavoro).
L’Allegato I, Parte D, introduce per la prima volta parametri specifici per i sistemi di distribuzione interni, includendo Legionella e piombo. Per la Legionella viene fissato un valore limite inferiore a 1000 UFC/L, con obbligo di monitoraggio specifico per gli edifici prioritari delle classi A, B, C e D secondo la classificazione dell’Allegato VIII.
Tale innovazione normativa, assente nel D.Lgs. 31/2001, attribuisce dignità di parametro analitico vincolante al batterio ubiquitario, imponendo controlli sistematici nei locali ad alto rischio e colmando una lacuna normativa di lungo corso.
La criticità terminologica: un problema strutturale con ricadute operative
L’elemento di maggiore criticità del decreto risiede nella discrepanza terminologica rispetto alla Direttiva europea di riferimento, discrepanza che permea l’intera architettura normativa generando ambiguità interpretative di portata sistemica. La Direttiva (UE) 2020/2184, all’articolo 2, paragrafo 2, definisce i “sistemi di distribuzione domestici” come: “le condutture, i raccordi e le apparecchiature installati fra i rubinetti normalmente utilizzati per le acque destinate al consumo umano in locali sia pubblici sia privati e la rete di distribuzione nel caso in cui per essi, secondo la pertinente legislazione nazionale, non sia responsabile il fornitore dell’acqua in quanto tale”.
Il D.Lgs. 18/2023, all’articolo 2, lettera hh), utilizza invece la locuzione “sistema o impianto di distribuzione interno, anche detto rete di distribuzione interna o sistema di distribuzione domestico”, creando una sovrapposizione semantica tra terminologia europea e terminologia nazionale che ha generato incertezze interpretative significative.
La Direttiva europea privilegia il concetto di “distribuzione domestica”, che richiama chiaramente l’ambito residenziale e le pertinenze degli edifici abitativi. Il decreto italiano introduce invece il termine “impianti interni”, generando una potenziale confusione con gli “impianti di distribuzione idrica all’interno di luoghi di lavoro”, soggetti a distinte normative di settore, in primis il D.Lgs. 81/2008.
Tale ambiguità terminologica ha prodotto effetti dirompenti nell’applicazione pratica delle disposizioni. La mancata distinzione tra “impianti domestici” (ambito residenziale) e “impianti interni” (termine generico che può includere luoghi di lavoro) ha generato incertezza radicale sull’ambito applicativo del decreto stesso.
Se il D.Lgs. 18/2023 disciplina solo gli impianti domestici – come suggerirebbe la Direttiva europea con il termine “domestic distribution systems” – allora la sua applicazione sarebbe limitata agli edifici residenziali (condomini, abitazioni private). La maggior parte delle strutture classificate come “prioritarie” nell’Allegato VIII (ospedali, scuole, hotel, aeroporti) sarebbero invece interamente disciplinate dal D.Lgs. 81/2008 in quanto luoghi di lavoro.
Se invece il decreto intendesse applicarsi anche a tali strutture – come la terminologia “impianti interni” potrebbe far supporre – si creerebbe una sovrapposizione normativa con il regime di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, con duplicazione di obblighi, responsabilità sovrapposte e parametri numerici contrastanti (1000 UFC/L del decreto vs 100 UFC/L delle Linee Guida 2015 applicabili nei luoghi di lavoro).
La mancata chiarezza terminologica ha generato un’ambiguità applicativa che investe la totalità dell’impianto normativo: chi è il GIDI in un ospedale? L’amministrazione sanitaria come gestore dell’edificio o il direttore sanitario come datore di lavoro? Si applica il parametro di 1000 UFC/L del decreto o il limite operativo di 100 UFC/L delle Linee Guida per la tutela dei lavoratori? La risposta normativa è incerta, e tale incertezza genera difformità applicative territoriali, contenziosi e insicurezza operativa.
In attesa degli attesi aggiornamenti normativi chiarificatori che distinguano inequivocabilmente tra impianti domestici-residenziali e impianti in luoghi di lavoro, permane una zona grigia interpretativa che compromette l’effettività della tutela. La discrepanza terminologica originaria si propaga a cascata generando incertezza su soggetti responsabili, parametri applicabili, modalità di valutazione del rischio.
La questione Legionella: tra nuovo limite e vecchie linee guida
La criticità più rilevante emerge proprio nella gestione del rischio legionellosi. Il D.Lgs. 18/2023, nell’Allegato I Parte D, fissa il valore parametrico per Legionella a <1000 UFC/L per i sistemi di distribuzione interni agli edifici prioritari. Tale valore contrasta con il limite di 100 UFC/L indicato nelle Linee Guida per la prevenzione e il controllo della legionellosi, approvate in Conferenza Stato-Regioni il 7 maggio 2015 e tuttora vigenti.
Le Linee Guida 2015 prescrivono interventi correttivi immediati al superamento di 100 UFC/L negli impianti idrici di strutture sanitarie e ricettive. Il nuovo decreto introduce un limite decuplo, creando un’evidente discrasia normativa. La coesistenza di due parametri numerici differenti per la medesima finalità sanitaria ha ingenerato incertezza operativa nei gestori delle strutture prioritarie.
Il Rapporto ISTISAN 22/32 “Linee guida per la valutazione e la gestione del rischio per la sicurezza dell’acqua nei sistemi di distribuzione interni degli edifici prioritari e non prioritari”, cui il decreto espressamente rinvia, tenta una mediazione suggerendo che per le classi B e C1 rimanga raccomandabile un valore soglia di ≤100 UFC/L, con controlli di verifica estesi a Legionella species oltre tale limite. Tuttavia, tale indicazione, espressa come raccomandazione e non come obbligo cogente, non risolve il conflitto normativo tra limite vincolante (1000 UFC/L) e raccomandazione tecnica (100 UFC/L).
La stratificazione normativa genera interrogativi applicativi: il GIDI che rileva un valore di 500 UFC/L è tenuto ad attuare provvedimenti correttivi immediati in base alle Linee Guida 2015 o può considerare la situazione conforme al parametro del decreto? Le ATS territoriali quale riferimento adottano nelle verifiche ispettive? La risposta a tali quesiti non trova univocità interpretativa, determinando disparità applicative territoriali.
L’errore metodologico: dal risk-based autentico al value-based mascherato
Oltre alla criticità terminologica, il decreto presenta un vizio metodologico ancora più grave che tradisce l’essenza dell’approccio basato sul rischio. Fissa nell’Allegato I, Parte D, un valore parametrico unico (1000 UFC/L)applicabile uniformemente, prescindendo dalla valutazione biologica dei soggetti esposti.
Cosa significa autentico approccio basato sul rischio
Un genuino approccio risk-based richiede la valutazione su due elementi inscindibili:
1) Caratteristiche del pericolo: carica batterica di Legionella (dato analitico)
2) Suscettibilità biologica: capacità del sistema immunitario di contrastare l’infezione (dato clinico)
Il rischio non è il parametro numerico, ma la combinazione: Rischio = Probabilità esposizione × Gravità danno × Suscettibilità individuale.
La variabilità biologica della suscettibilità
La legionellosi presenta incidenza e letalità variabili per fattori predisponenti: età avanzata (oltre 65 anni), patologie respiratorie croniche (BPCO, enfisema), cardiache, diabete, neoplasie, immunodepressione farmacologica, HIV, post-trapianto.
La variabilità biologica è tale che:
- In oggetto immunocompetente: anche 10.000 UFC/L possono non causare malattia
- In soggetto gravemente immunocompromesso: anche 50-100 UFC/L possono risultare fatali
La suscettibilità varia di ordini di grandezza, rendendo impossibile un unico parametro protettivo per tutte le condizioni biologiche.
Dal rischio contestualizzato alla conformità numerica
Fissando il limite a 1000 UFC/L uniformemente, il decreto opera uno slittamento concettuale:
- DA: risk-based (valutazione contestualizzata: probabilità × gravità × suscettibilità)
- A: value-based (conformità = rispetto parametro fisso)
Il rischio è la riduzione a conformità analitica: “valore < 1000 UFC/L conformi situazione sotto controllo”. Questo ignora la componente biologica. Un valore di 500 UFC/L può essere irrilevante per giovani adulti sani, ma grave pericolo per anziani immunodepressi.
Il parametro diventa alibi per l’inerzia gestionale, anziché strumento di valutazione contestualizzata.
L’approccio corretto: valutazione biologica personalizzata
L’approccio corretto richiederebbe valutazione specifica del rischio biologico considerando:
- caratteristiche della popolazione (età, patologie, immunocompetenza),
- modalità d’uso dell’acqua,
- caratteristiche impiantistiche.
Su tale base, individuare misure proporzionate al rischio reale.
La valutazione del rischio biologico è esercizio di giudizio professionale che integra dati analitici con valutazione clinico-epidemiologica, non applicazione meccanica di soglie. Un parametro unico risulta inadeguato per popolazioni con suscettibilità variabile di ordini di grandezza.
Le conseguenze operative e la necessità di chiarimenti normativi
Le discrepanze evidenziate producono conseguenze operative rilevanti che investono tutti gli attori della filiera. L’incertezza sull’ambito applicativo del decreto – impianti domestici-residenziali o anche impianti in luoghi di lavoro? – genera difformità interpretative con ricadute pratiche immediate.
I gestori di edifici classificati come “prioritari” dall’Allegato VIII si trovano nell’impossibilità di determinare se debbano nominare un GIDI applicando il D.Lgs. 18/2023 o se, trattandosi di luoghi di lavoro, debbano continuare ad applicare esclusivamente la normativa previgente sulla sicurezza sul lavoro con valutazione del rischio biologico. La risposta normativa non è univoca, generando comportamenti difformi.
L’incertezza si amplifica per gli edifici a uso promiscuo: un condominio con attività commerciali ai piani terra, una scuola con abitazione del custode, una struttura sanitaria con alloggi per il personale. Quali impianti rientrano nell’ambito “domestico” e quali nell’ambito “lavorativo”? Il decreto non fornisce criteri distintivi, lasciando agli operatori l’onere di interpretazioni non supportate da chiarezza normativa.
Le Autorità Sanitarie Locali si trovano prive di riferimenti univoci per l’azione di vigilanza. Le prescrizioni emesse risentono della discrezionalità interpretativa circa la qualificazione dell’impianto e della normativa applicabile, generando contenziosi amministrativi. La coesistenza di interpretazioni diverse tra territori crea disparità di tutela inaccettabili in ambito sanitario.
L’incertezza si riflette anche nelle procedure di appalto per la gestione del rischio Legionella. I capitolati tecnici oscillano tra i due riferimenti, generando disparità concorrenziali tra operatori che applicano standard differenti. Le polizze assicurative RC degli amministratori di condominio faticano a parametrare il rischio in assenza di chiarezza normativa. Gli organi di vigilanza del D.Lgs. 81/2008 (ASL – Servizio PSAL) e quelli competenti per il D.Lgs. 18/2023 (ASL – Servizio Igiene Alimenti e Nutrizione o Igiene e Sanità Pubblica) possono formulare prescrizioni potenzialmente contrastanti sulla medesima situazione di fatto, aggravando l’incertezza degli operatori.
In attesa degli auspicati aggiornamenti normativi che armonizzino il quadro regolatorio, l’unica interpretazione giuridicamente sostenibile impone di mantenere la distinzione tra impianti domestici (D.Lgs. 18/2023) e impianti in luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008 e Linee Guida 2015). Tale distinzione, tuttavia, richiede competenze tecniche e giuridiche non sempre disponibili presso i gestori delle strutture, rendendo necessario il supporto di professionisti specializzati per la corretta identificazione degli impianti e l’applicazione della normativa pertinente.
La confusione normativa rischia inoltre di vanificare l’obiettivo di maggior tutela che il decreto si proponeva. Se i gestori privilegiano il rispetto formale del parametro 1000 UFC/L, trascurando la valutazione specifica del rischio per i soggetti fragili effettivamente presenti nella struttura, la sostanza protettiva della norma si dissolve nella forma del mero adempimento numerico.
Recuperare l’essenza della valutazione del rischio biologico
Il D.Lgs. 18/2023 rappresenta un’evoluzione necessaria rispetto al D.Lgs. 31/2001, introducendo l’approccio risk-based su tutta la filiera, l’aggiornamento dei parametri chimici, l’estensione della tutela agli impianti interni. Tuttavia, il decreto presenta criticità strutturali che rischiano di vanificare le potenzialità innovative del provvedimento.
La criticità originaria è di natura terminologica: la discrepanza tra “distribuzione domestica” (domestic distribution systems della Direttiva UE) e “impianti interni” (terminologia del decreto italiano) genera ambiguità radicale sull’ambito applicativo stesso della norma. Tale imprecisione terminologica si propaga generando: incertezza su quali strutture e quali impianti ricadano effettivamente nel campo di applicazione del decreto; sovrapposizione o lacune normative rispetto alla disciplina della sicurezza nei luoghi di lavoro; confusione sui soggetti responsabili (GIDI versus datore di lavoro). La criticità metodologica conseguente è ancora più grave: il decreto tradisce l’essenza dell’approccio basato sul rischio biologico fissando un parametro numerico unico (1000 UFC/L) applicabile uniformemente, prescindendo dalla valutazione della suscettibilità biologica dei soggetti esposti.
L’autentico approccio risk-based non è il mero rispetto di parametri numerici, ma la valutazione contestualizzata che integra dati analitici con valutazione biologica della popolazione esposta. Il rischio biologico non è dato dal solo valore numerico della carica batterica, ma dalla combinazione tra probabilità di esposizione al patogeno e vulnerabilità specifica dell’organismo esposto. La suscettibilità individuale alla legionellosi varia di ordini di grandezza in funzione di età, comorbidità, stato immunitario. Ignorare tale variabilità biologica significa ridurre la valutazione del rischio a conformità analitica, tradendo la ratio protettiva che dovrebbe animare ogni normativa sanitaria.
Un parametro numerico unico, applicato uniformemente prescindendo dalla popolazione esposta, trasforma l’approccio risk-based proclamato in un value-based approach de facto. La valutazione del rischio diventa verifica di conformità: “valore inferiore al parametro = situazione sotto controllo”, indipendentemente dalla presenza di soggetti fragili che potrebbero sviluppare legionellosi anche con cariche batteriche inferiori alla soglia normativa.
Si rende indispensabile un intervento chiarificatore attraverso decreto correttivo o circolari ministeriali che:
- Precisino inequivocabilmente che il D.Lgs. 18/2023 disciplina esclusivamente gli impianti di distribuzione domestica in edifici residenziali, non gli impianti idrici dei luoghi di lavoro;
- Confermino che strutture sanitarie, ricettive, scolastiche, produttive – classificate come prioritarie ma configurabili come luoghi di lavoro – rimangono interamente soggette alla normativa sulla sicurezza sul lavoro con valutazione del rischio biologico personalizzata;
- Ribadiscano che la valutazione del rischio per Legionella, ovunque applicabile, deve essere valutazione biologica contestualizzata che considera la suscettibilità della popolazione esposta, non mera verifica di conformità a parametri numerici;
- Chiariscano che eventuali parametri numerici costituiscono riferimenti orientativi, non valori assoluti decontestualizzati dalla valutazione delle caratteristiche biologiche dei soggetti potenzialmente esposti.
In attesa degli aggiornamenti normativi, gli operatori devono interpretare il decreto recuperando l’essenza dell’approccio basato sul rischio: non il mero rispetto di parametri numerici, ma la valutazione specifica delle condizioni di esposizione e della suscettibilità dei soggetti, adottando misure di prevenzione e controllo proporzionate al rischio reale. Solo così il D.Lgs. 18/2023 potrà esprimere il proprio potenziale di tutela della salute pubblica senza ridursi a formalismo burocratico distante dalla sostanza protettiva che dovrebbe perseguire.
La lezione del decreto è chiara: l’approccio basato sul rischio non può essere proclamato a parole per poi essere tradito nei fatti attraverso l’imposizione di parametri numerici uniformi che ignorano la variabilità del rischio reale. La valutazione del rischio è esercizio di giudizio contestualizzato, non applicazione meccanica di soglie predefinite. È questa consapevolezza che deve guidare l’applicazione del decreto e, auspicabilmente, le future correzioni normative.
- Incertezza sull’ambito applicativo – I gestori di edifici “prioritari” dell’Allegato VIII non sanno se nominare un GIDI applicando il D.Lgs. 18/2023 o se, trattandosi di luoghi di lavoro, applicare esclusivamente la normativa previgente sulla sicurezza con valutazione del rischio biologico.
- Edifici a uso promiscuo – Un condominio con attività commerciali ai piani terra, una scuola con abitazione del custode, una struttura sanitaria con alloggi per il personale: quali impianti rientrano nell’ambito “domestico” e quali “lavorativo”? Il decreto non fornisce criteri, lasciando agli operatori interpretazioni non supportate.
- Vigilanza sanitaria disomogenea – Le Autorità Sanitarie Locali sono prive di riferimenti univoci. Le prescrizioni risentono della discrezionalità interpretativa circa la qualificazione dell’impianto e della normativa applicabile, generando contenziosi e disparità territoriali inaccettabili in ambito sanitario.
- Difformità applicative concrete: il caso dei controlli Legionella – L’incertezza normativa si manifesta in modo paradigmatico nelle verifiche ispettive e nei controlli analitici. I verbali di verifica ispettiva emessi da ATS/ASL indicano sistematicamente come riferimento il limite delle Linee Guida 2015 (100 UFC/L con azioni graduate), riconoscendo implicitamente che per i luoghi di lavoro permane l’obbligo di applicare la normativa previgente sulla sicurezza. Parallelamente, i laboratori privati che effettuano analisi su campioni prelevati in luoghi di lavoro o assimilabili producono rapporti di prova con riferimento al D.Lgs. 18/2023 (limite 1000 UFC/L), generando confusione nei destinatari. Ne consegue una contraddizione operativa. L’organo di vigilanza prescrive il rispetto del limite 100 UFC/L basandosi sulle Linee Guida 2015, mentre il laboratorio certifica la conformità al limite 1000 UFC/L del decreto. Il gestore riceve documentazione contrastante sulla medesima situazione analitica: un valore di 500 UFC/L risulta “non conforme” secondo il verbale ispettivo ma “conforme” secondo il rapporto di prova. Tale contraddizione paralizza l’azione gestionale e genera contenzioso.
- Costi della conformità incerta – L’incertezza normativa genera costi: consulenze legali per interpretare l’ambito applicativo, doppia documentazione prudenziale, ripetizione di analisi con differenti riferimenti normativi, contenzioso amministrativo. L’inefficienza ricade su operatori, cittadini e utenti.




