Serve un digital green deal

data centerLa crescita dell’utilizzo del cloud comporta – soprattutto a livello di gestione degli ambienti di conservazione dei dati e di loro stabilizzazione dei valori climatici – un consistente e sempre crescente consumo di energia e risorse naturali. Affrontiamo la materia con l’aiuto di Filippo Busato, libero professionista e professore universitario.

È ormai opinione diffusa che il digitale è climaimpattante. Il consumo di acqua per il raffrescamento delle web farm dedicate all’intelligenza artificiale dei tre principali marchi attivi nel campo è pari a quello dell’intera Danimarca. E sorge immediatamente un dubbio: ma il digitale non avrebbe dovuto “salvare il pianeta” con minore consumo di carta, minori spostamenti con mezzi di trasporto a combustibili fossili e via discorrendo?

La vicenda è – come molte altre – complessa: fra le aspettative rosee della fase iniziale e la realtà della gestione operativa le differenze sono profonde e questo ci spinge a chiedere a una figura come Filippo Busato, impegnata sui diversi fronti, energia, climatizzazione, ricerca quali siano i driver reali che si stanno manifestando nel mondo della digitalizzazione e della quota di consumi energetici che spettano alla climatizzazione necessaria per far funzionare in modo sicuro il digitale.

Il digitale sembrava la soluzione per un uso smart dell’energia. Nato per ridurre consumi e impatti ambientali, in realtà richiede enormi quantità di energia e risorse.

Si tratta di un loop?

Filippo Busato, libero professionista e professore universitario

«Bisogna tornare alla domanda chiave: è la tecnologia o è il modo di utilizzarla che ci fa risparmiare? L’esempio dell’automotive è lampante: gli standard tecnologici sono i più affinati di sempre, ma le emissioni da trasporto con motori a combustione sono in crescita. Abbiamo a disposizione il parco automobilistico più efficiente della storia, ma questo non basta a contenere l’impatto.

Allo stesso modo il digitale ci consente di “risparmiare” su scala unitaria, ma oggi richiede moltissima energia elettrica e di conseguenza genera anche altrettante emissioni di CO2 per il suo funzionamento, con specifico riferimento all’intelligenza artificiale».

Smettiamo di usare l’AI?

«Impossibile: la crescita dell’intelligenza artificiale e dei data center è esponenziale. È il settore che sta crescendo di più e più della media delle economie mondiali, è il pivot che sta guidando molte delle nostre scelte. E, paradossalmente, la tecnologia che ci potrebbe consentire di effettuare le scelte migliori con minori consumi di energia in realtà ci porta a consumarne comunque tantissima».

L’uso che ne facciamo è smodato?

«Stiamo utilizzando l’intelligenza artificiale in decisioni o scelte che potrebbero essere prese nell’uomo senza intelligenza artificiale. Oltretutto c’è un utilizzo fringe, improprio, volitivo quasi “vacanziero” dell’intelligenza artificiale che sta generando questa massa enorme di consumi. Quindi al momento abbiamo gli strumenti migliori per consumare il meno possibile, ma stiamo consumando più di sempre».

Come possiamo rimediare a questo “errore umano”?

«La strategia di contenimento dell’impatto passa anch’essa per l’intelligenza artificiale? Oppure è una questione esclusivamente umana? Il fatto è che stiamo usando malissimo uno strumento potenzialmente utile, ma se dobbiamo calare il ragionamento in ambito tecnico e di impiantistica, è il caso di riflettere su un punto: è il data center lo “strumento” che ospita questa frazione importantissima dei consumi. Oggi abbiamo delle esigenze a livello non solo nazionale, ma anche internazionale, planetario che hanno portato il data center al centro della scena».

Un problema complesso?

«Non direi, l’impianto al servizio del data center è meno complesso, meno articolato di quello di un ospedale, ma Il problema è che la prospettiva di crescita del data center in Italia da oggi al 2030 può generare almeno 15 miliardi di investimento complessivo, quindi anche dall’estero, per portare l’Italia e all’interno del circuito FLAPD (Francoforte, Londra, Amsterdam, Parigi, Dublino) e mantenere il nostro sistema infrastrutturale in una posizione di competitività».

Un’esigenza macroeconomica, quindi…

«Il data center di oggi è una risorsa che ci consente di macinare informazioni, consumando molta energia, ovviamente, ma lo sviluppo che questo “strumento” sta avendo in Italia è fondamentale per essere nel sistema delle grandi dorsali di trasmissione dati. Ma siamo anche in un contesto climatico che, in particolare d’estate non è particolarmente favorevole alla climatizzazione, anzi!

Temperature molto elevate, effetto dell’isola di calore, rendono particolarmente svantaggiosa la gestione del data center in Italia, per cui si preferisce delocalizzarlo in paesi dove il raffreddamento avviene traendo vantaggio da sorgenti come l’aria esterna, l’acqua di mare, le precipitazioni, gli accumuli idrici, il terreno indisturbato con scambiatori geotermici».

E qui entra in gioco la progettazione, che deve arrivare a trovare soluzioni efficienti per dislocare questi servizi ormai indispensabili anche nel nostro Paese, giusto?

«Per essere protagonisti o comunque coprotagonisti servirebbero molti fattori, un prezzo dell’energia elettrica più favorevole sarebbe già utile, ma indubbiamente abbiamo bisogno di soluzioni tecniche che siano più efficienti di quelle sviluppate da altri per vincere il gap climatico e il gap tariffario.

Se il decoupling e un’indicizzazione del prezzo dell’energia che prescinda dal prezzo del gas ci favorirebbe, anche per l’incentivo all’utilizzo della quantità di energia prodotta da fonti rinnovabili, ciò che risulta più rilevante in questa sede è l’aspetto appunto della progettazione e della strutturazione che tenga conto di un criterio basilare, l’efficienza dell’impianto, che ha un’ unità di misura, la Power Usage Effectiveness, cioè il consumo totale di energia del data center (inclusi gli ausiliari, in particolare il sistema di heat rejection) diviso per il consumo di energia degli apparati elettronici, che deve il più possibile avvicinarsi al valore di 1 per rappresentare l’efficienza».

E quali sono le variabili di cui si deve tenere conto in questo calcolo?

«Naturalmente il sistema impianto deve essere molto efficiente, una considerazione pressoché scontata, ma che è sempre il caso di ribadire, ma segue a ruota un insieme di considerazioni “esterne” alla performance specifica dell’impianto: la localizzazione dell’impianto incide pesantemente perché influenza le possibilità di smaltimento su sorgenti esterne piuttosto che la disponibilità di sorgenti di scambio come l’aria esterna, l’acqua di correnti fluviali importanti, il geotermico stesso e la possibilità di autoproduzione dell’energia».

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La questione data center s’intreccia fortemente con il tema dell’autoproduzione e dello scambio di calore

Come possiamo quantificare le differenti voci nel calcolo dell’incidenza per ottenere efficienza?

«A mio modo di vedere è possibile oggi attribuire un 50% del peso dell’efficienza ricavabile allo sviluppo di impianti intrinsecamente efficienti. Il restante 50% può essere equamente suddiviso fra la variabile di prossimità a opportuni serbatoi termici e la voce autoproduzione e autoconsumo di energia elettrica».

Ma gli ambienti dei data center sono quasi ad atmosfera controllata …

«E questo è un altro sistema strategico, poiché avere un sistema nel quale è presente aria atmosferica determina problematiche di sicurezza: il 21% di ossigeno dà spazio una quantità importante di comburente in caso di incendio. Ecco allora che molti data center scelgono involucri tenuta stagna per controllare il tenore di ossigeno all’interno dell’involucro e avere ambienti che lavorano al 18% o al 15% di ossigeno quando non si hanno addirittura sistemi stagni che lavorano all’8% o al 5% di ossigeno in atmosfere saturate di azoto o di CO2, in cui non è consentito l’accesso agli esseri umani ma è molto più ridotta la possibilità di innesco di un incendio o di propagazione della fiamma.

E in questo campo è rilevante il tema dell’involucro del data center, più che nelle trasmittanze, spostando il focus su un elemento, la sicurezza antincendio, che è di massima importanza a tutela dell’investimento».

Ma questo calore da smaltire non costituisce una risorsa?

«Ecco, dal punto di vista tecnico ed energetico entriamo in un campo davvero intrigante: abbiamo delle grandi quantità di calore, a quali temperature le rendiamo disponibili? Fino a qualche anno fa le temperature dell’aria nei data center non potevano superare i 26/27 °C, perché le apparecchiature elettroniche a temperature superiori avrebbero risentito di danni notevoli e avrebbero avuto una curva di obsolescenza operativa più accentuata.

Oggi, vista la velocità con cui le apparecchiature elettroniche si evolvono e quindi la conseguente velocità con cui vengono sostituite, l’usura e il logoramento derivanti dall’aumento di temperatura negli apparati sono fattori contemplati nella vita utile e nell’obsolescenza tecnologica della macchina, del server e del data center stesso.

Quindi, se una volta mantenere un data center a 27 °C poteva far durare i server 15 anni, oggi far durare quei server 15 anni è inutile, perché dopo 6 o addirittura 3 anni diventeranno obsoleti: di conseguenza si sale progressivamente a 32, 37, 42 °C. E a 42 °C il data center produce un incrementato valore (temperatura) del calore di scarto: si può dare riscaldamento diretto con aria a 40 °C o a 42 °C per capannoni industriali adiacenti, con opportuni convogliamenti delle portate d’aria quando non anche agire da sorgente termica per un sistema di teleriscaldamento a pompa di calore o lavorare con l’acqua del terreno con efficienza delle pompe di calore elevatissima».

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La gestione green dei data center richiede un approccio oculato sia nella produzione dell’energia necessaria sia nello stoccaggio

Una sinergia ad altissimo potenziale!

«Quel calore di scarto viene utilizzato per altri scopi, non è più semplicemente rigettato dal sistema. Questo disegna prospettive nuove di interazione fra sistemi termodinamici: da un puro sperpero di energia si passa ad un recupero molto importante di calore, dove anche tutta l’energia utilizzata dall’elettronica genera un notevole effetto utile come ricaduta.

A livello a livello di sistema si va ad inserire il data center in un contesto integrato di rete, in cui superiamo una visione a compartimenti stagni dell’energia suddivisa in elettrica, termica e meccanica con un concetto appunto integrato e sinergico che non è una semplice ottimizzazione, ma se vogliamo l’utilizzo più smart dell’energia nell’interazione fra le sue diverse forme e impieghi».

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