La mostra internazionale di Architettura di Venezia punta i riflettori sulle strategie per ridurre l’impatto ambientale dell’ambiente costruito. In particolare, alcuni padiglioni nazionali propongono soluzioni innovative per la progettazione del sistema edificio/impianto.
Aperta al pubblico lo scorso 20 maggio, la 18a edizione della Biennale di Architettura di Venezia si potrà visitare fino al 26 novembre. Ospitata nelle tre sedi dei Giardini, dell’Arsenale (figura 1) e di Forte Marghera, la Mostra dal titolo The Laboratory of the Future vuole riflettere su due temi di grande attualità: la decolonizzazione e la decarbonizzazione.
La curatrice Lesley Lokko ha voluto sottolineare che nei mesi che hanno preceduto l’apertura, è emersa più volte la domanda se esposizioni di questa portata possano essere giustificate, sia in termini di emissioni di carbonio sia di costi. «Una mostra di architettura prende in prestito struttura e formato dalle mostre d’arte, ma se ne distingue per alcuni aspetti critici che spesso passano inosservati. Oltre al desiderio di raccontare una storia, anche le questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo, eppure vengono riconosciute e discusse di rado. È stato chiaro fin dal principio che The Laboratory of the Future avrebbe adottato come suo gesto essenziale il concetto di cambiamento».
Per la prima volta il focus è dedicato all’Africa e alla sua diaspora, a quella cultura di persone di origine africana che oggi abbraccia il mondo. Secondo Lokko, «spesso si definisce la cultura come il complesso delle storie che raccontiamo a noi stessi, su noi stessi. Sebbene sia vero, ciò che sfugge a questa affermazione è la consapevolezza di chi rappresenti il “noi” in questione. Nell’architettura in particolare, la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere hanno ignorato vaste fasce di umanità – dal punto di vista finanziario, creativo e concettuale – come se si ascoltasse e si parlasse in un’unica lingua. La storia dell’architettura è quindi incompleta. Non sbagliata, ma incompleta. Ecco perché le mostre sono importanti».
Come sottolineato dal Presidente della Mostra Roberto Cicutto «il punto di forza di questa Biennale consiste proprio nell’ascoltare dall’interno le diverse voci che vengono dall’Africa e dialogano con il resto del mondo, costringendoci ad abbandonare un’immagine di quel continente e dei suoi abitanti che abbiamo perpetuato per secoli, quella di un’Africa vista più come un problema (migranti, povertà, fame, conflitti…) o solo come un paese da aiutare. Questo cambio di prospettiva nell’incontrare un continente che anagraficamente è il più giovane della terra, e oggi diviene per molti paesi un interlocutore alla pari per accordi economici sul piano dell’approvvigionamento energetico o degli investimenti infrastrutturali, porta con se una grande rivoluzione».
La Mostra è divisa in sei parti e comprende 64 paesi nazionali per un totale di 89 partecipanti, di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana. L’equilibrio di genere e paritario e l’età media dei partecipanti e di 43 anni, mentre scende a 37 nella sezione Progetti Speciali della Curatrice, in cui il più giovane ha 24 anni. Per la prima volta quasi la metà dei partecipanti proviene da studi a conduzione individuale o composti da un massimo di cinque persone.
In tutte le sezioni della Mostra, oltre il 70% delle opere esposte e stato progettato da studi gestiti da un singolo o da un team molto ristretto. The Laboratory of the Future inizia nel Padiglione Centrale ai Giardini, dove sono stati riuniti 16 studi che rappresentano un distillato di force majeure (forza maggiore) della produzione architettonica africana e diasporica. Si sposta poi nel complesso dell’Arsenale con la sezione Dangerous Liaisons (Relazioni Pericolose) – presente anche a Forte Marghera, a Mestre – affiancata a quella dei Progetti Speciali della Curatrice.
In entrambi gli spazi sono presenti opere di giovani “practitioner” africani e diasporici, i Guests from the Future (Ospiti dal Futuro), il cui lavoro si confronta direttamente con i due temi della Mostra fornendo un’istantanea delle pratiche e delle modalità future di vedere e di stare al mondo. Si è espressamente scelto di qualificare i partecipanti come “practitioner” e non come “architetti”, “urbanisti”, “designer”, “architetti del paesaggio”, “ingegneri” o “accademici”, perché le condizioni complesse di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia della professione.
Il programma è arricchito dal Carnival, un ciclo di incontri, conferenze, tavole rotonde, film e performance, concepito come uno spazio di spettacolo e intrattenimento che offre un luogo in cui vengono scambiate, ascoltate, analizzate e ricordate idee, prospettive e opinioni. Il palco sarà condiviso da politici, policymakers, poeti, registi, documentaristi, scrittori, attivisti, organizzatori di comunità e intellettuali pubblici insieme ad architetti, accademici e studenti. Il programma vuole essere una forma di pratica dell’architettura che tenta di colmare il divario tra gli addetti ai lavori e il pubblico.
Oltre che nella scelta dei temi, la Biennale è impegnata in modo concreto nel cruciale obiettivo del contrasto al cambiamento climatico anche attraverso la promozione di un modello più sostenibile per la progettazione, l’allestimento e lo svolgimento di tutte le sue attività. Nel 2022 ha ottenuto la certificazione di neutralità carbonica per tutte le proprie manifestazioni svolte durante l’anno, grazie alla raccolta dati sulla causa delle emissioni di CO₂ generate dalle manifestazioni stesse e all’adozione di misure conseguenti. L’intero processo di raggiungimento della neutralità carbonica è stato realizzato in conformità allo standard internazionale PAS 2060.
Per tutte le manifestazioni, la componente più rilevante dell’impronta carbonica complessiva è collegata alla mobilità dei visitatori. In questo senso, la Biennale sarà impegnata anche nel 2023 in un’attività di sensibilizzazione e comunicazione verso il pubblico, a partire proprio dalla Mostra Internazionale di Architettura che sarà la prima grande manifestazione di questa disciplina a sperimentare sul campo un percorso per il raggiungimento della neutralità carbonica. Tutti i paesi partecipanti hanno affrontato, seppure ovviamente in modo diverso, il tema della lotta al cambiamento climatico, di seguito analizziamo quelli che si distinguono per un approccio più vicino alla pratica progettuale, insieme a due mostre organizzate in spazi espositivi al di fuori degli spazi della Biennale.
Il padiglione della Slovenia
Nell’ultimo decennio il tema della sostenibilità ha avuto senza dubbio un impatto significativo in ogni disciplina e ha giocato un ruolo determinante nel plasmare lo sviluppo dell’architettura. Il progetto del padiglione sloveno all’Arsenale (figura 2) affronta il tema in modo critico denunciando il fatto che l’architettura tende a considerare la sostenibilità esclusivamente in termini di efficienza energetica attraverso l’uso della tecnologia. Ciò significa che il merito della presunta natura ecologica dell’architettura viene in genere attributo agli impianti di climatizzazione che trasformano le nostre case in macchine destinate a gestire il consumo energetico in modo efficiente ed economico.
L’efficienza energetica diventa così un componente del tutto separato e indipendente dall’architettura e di conseguenza la sostenibilità è spesso percepita come un vincolo restrittivo che si manifesta attraverso rigorose condizioni tecniche e legislative. In contrasto con questo concetto, i curatori del padiglione usano la parola “ecologia” per rappresentare le numerose e complesse relazioni tra l’architettura e l’ambiente che vanno oltre l’uso della tecnologia.
Per pensare all’ecologia in modo diverso dobbiamo guardare al passato e in particolare all’architettura vernacolare dei secoli precedenti che non conosceva tale demarcazione, dato che l’ecologia era inseparabile dall’architettura stessa, essendo gli edifici sostenibili già nella loro progettazione concettuale. Un semplice concetto architettonico era infatti sempre basato sul fabbisogno energetico legato al contesto climatico e topografico e ai materiali disponibili. In altre parole, l’architettura vernacolare è sempre stata caratterizzata dalla massima efficienza dal punto di vista energetico per quanto riguarda sia i mezzi che le condizioni specifiche del luogo.
Con l’obiettivo di definire un’alternativa ai sistemi costruttivi esistenti, i curatori, in collaborazione con 50 architetti e creativi di tutta Europa, hanno svolto una serie di ricerche analizzando vari esempi di edifici vernacolari che, a differenza dell’attuale pratica contemporanea, affrontano la questione della sfida ambientale in modo olistico, come parte integrante del progetto architettonico. I principi energetici alla base del progetto di questi edifici sono stati divisi in 5 categorie:
- la stanza nella stanza,
- il focolare,
- la zona intermedia,
- il bozzolo
- e la compressione spaziale con il ribassamento dei soffitti (figura 3).
Gli esempi presentati mostrano che nell’architettura vernacolare gli input relativi all’energia rivestivano anche un ruolo sociale e rituale in aggiunta alla loro funzione primaria. Affrontando i problemi del riscaldamento e del raffreddamento, essi hanno generato e organizzato i modi in cui gli edifici erano abitati, e hanno stabilito relazioni specifiche tra architettura, utenti e ambiente.
Questo approccio si allontana dalla percezione comune e nostalgica dell’architettura vernacolare come nostalgia di epoche storiche andate perdute per sempre. Al contrario essa è intesa come un esempio vivente di principi energetici che sono rilevanti anche nell’era attuale e che possono quindi essere utilizzati come base per una reinterpretazione critica della produzione architettonica contemporanea, per la quale non è sufficiente essere semplicemente a basso consumo energetico ma che invece deve diventare ecologica.
L’intervento spaziale del padiglione consiste in una struttura composta da due elementi primari costruiti con materiali naturali: le pareti e il soffitto sono realizzati con telai in legno e pannelli tesi in feltro di lana naturale, mentre il pavimento è in mattoni (figura 4).
La struttura è stata progettata per avere una seconda vita dopo la mostra, dato che consente un semplice smontaggio e riutilizzo. Traducendo i principi caratteristici dell’architettura vernacolare in uno spazio concreto, il padiglione riflette su come essi potrebbero essere applicati nella progettazione degli edifici contemporanei ed è progettato in modo da operare su due distinti livelli.
Da una parte comunica con il visitatore attraverso l’esperienza sensoriale e funziona come uno spazio immersivo grazie alla sua presenza materiale. Il livello successivo è invece analitico ed è destinato ai visitatori che hanno un particolare interesse per il tema del padiglione e per i principi energetici dell’architettura vernacolare. Il padiglione sloveno rappresenta quindi l’espressione di questi principi energetici per ognuno dei quali sono previste schede con testi descrittivi, disegni e fotografie (figura 5).
Il progetto non si limita al padiglione ma prevede sia una conferenza che si terrà a Lubiana nell’autunno del 2023 sul tema dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile attraverso l’integrazione di architettura, economia e scienza, sia la pubblicazione del libro +/- 1 °C: Alla ricerca di un’architettura ben temperata, che esplora il tema complesso e sfaccettato dell’ecologia in architettura in un contesto socio-economico più ampio, con contributi provenienti dai curatori e dagli architetti partecipanti, oltre che da una selezionata giuria di esperti.
Il padiglione della Finlandia
Progettato dal grande architetto Alvar Aalto nel 1956, il padiglione della Finlandia (figura 6) ospita la mostra Huussi – Imagining the future history of sanitation. La mostra mira a sensibilizzare il pubblico sull’importanza di reinventare gli impianti idrosanitari a servizio degli edifici.
La crescente scarsità di acqua potabile e l’uso eccessivo di fertilizzanti chimici rappresentano sfide economiche ed ecologiche su scala globale con implicazioni che riguardano la sicurezza idrica e alimentare, il cambiamento climatico e il rischio di collasso di tutto il nostro ecosistema. La mostra mette sul banco degli imputati il WC tradizionale che, come affermato da Katarina Siltavuori, commissario del Padiglione, “è un classico prodotto dell’era consumistica: comodo, igienico, con poca manutenzione. Si preme lo sciacquone e litri di acqua abbondante e a basso costo ci portano via tutta la responsabilità per i nostri rifiuti organici, da smaltire altrove mediante infrastrutture sovvenzionate con denaro pubblico”.
La soluzione proposta per affrontare questa sfida si basa sulla reinterpretazione del classico huussi, il WC a secco concepito per il compostaggio utilizzato in mezzo milione di chalet sparsi nei boschi finlandesi (figura 7). Progettata da The Dry Collective, un gruppo di architetti, designer e artisti guidati dal curatore Arja Renell, la mostra mette al centro del padiglione un modello di huussi costruito utilizzando un sistema smontabile in pannelli strutturali in legno (figura 8).
Il WC non richiede l’adduzione di acqua potabile ne il collegamento alla rete fognaria: una vasca posta sotto il catino raccoglie le deiezioni, sulle quali viene gettata una manciata di corteccia. Il contenuto viene raccolto in un piccolo serbatoio ausiliario. Quando questo e pieno, viene svuotato e il fertile humus viene sparso nell’orto. L’huussi e circondato da vasi di piante riempiti di compost organico e concimati con fertilizzante a base di urina, in modo da invitare i visitatori a rivalutare il loro ruolo nel ciclo della produzione alimentare e presentare la possibilità di trasformare i nostri attuali sistemi, caratterizzati da un’elevata intensità di risorse per l’uso di acqua e fertilizzanti, in un processo circolare a basso input, con una produzione energetica e sostenibile basata sul compostaggio.
Un esempio di WC a secco e quello sviluppato per il progetto Rehome dall’Institute of Design and Fine Arts di Lahti e destinato a garantire alloggi temporanei nei campi per rifugiati. La mostra utilizza l’huussi come punto di partenza su scala domestica per una riflessione sul tema di come trattiamo i nostri rifiuti nel contesto della crisi climatica.
Nelle economie sviluppate, il 30% del consumo idrico domestico viene utilizzato dai WC mentre il trattamento delle acque reflue rappresenta il 3,5% delle emissioni globali di gas serra e l’1,3% delle emissioni di CO₂, paragonabili a quelle dell’industria aeronautica. A livello globale, l’80% delle acque reflue viene rilasciato nell’ambiente senza trattamento, con i conseguenti rischi per la salute pubblica e la distruzione dell’ecosistema.
L’huussi presentato in mostra non può essere utilizzato durante il periodo espositivo, tuttavia il sistema è funzionante e al termine della Biennale l’intera struttura sarà donata a VERAS, un’associazione no-profit che ha sviluppato e gestisce un parco agro-alimentare nella vicina Isola delle Vignole nella laguna di Venezia.
La mostra prevede anche la finta ricostruzione di uno scavo archeologico che consegna simbolicamente alla storia il WC tradizionale (figura 9), mentre un documentario immaginario ambientato nell’anno 2043 racconta l’attuale approccio ai servizi igienico-sanitari. Con l’aiuto di questo viaggio nel tempo, il progetto presenta l’assurdita dell’attuale uso eccessivo di acqua e fertilizzanti mentre altri video forniscono informazioni approfondite sulle modalita di riciclo delle nostre deiezioni e sulle sfide poste dall’utilizzo di queste soluzioni igienico-sanitarie alterna tive nei centri urbani.
La mostra evidenzia anche l’emergenza ambientale legata alle elevate emissioni di CO₂ causate dalla produzione di fertilizzanti a base di azoto e al fosforo, che potrebbe essere ridotta se i nostri rifiuti fossero riciclati in modo efficiente. L’azoto e il fosforo riversati nei corsi d’acqua attraverso il loro uso in agricoltura e il trattamento delle acque reflue rappresentano inquinanti che minacciano il futuro del pianeta.
Il progetto è accompagnato dalla pubblicazione Death to the flushing toilet (figura 10) e da un serie di workshop mirano a delineare un cambio di paradigma. Il libro esamina le barriere culturali e socio-economiche da superare per diffondere il concetto del WC a secco e descrive una serie di soluzioni infrastrutturali alternative su scala urbana gia disponibili e pronte per essere ulteriormente sviluppate.
Nel rispondere alla chiamata all’azione lanciata dal tema della Biennale, il padiglione invita il pubblico e i professionisti a immaginare da subito nuove soluzioni alla sfida globale dell’impatto ambientale. Come afferma la curatrice Arja Renell, “non possiamo vivere su un pianeta in cui miliardi di persone utilizzano risorse di acqua potabile in rapida diminuzione per scaricare i propri rifiuti. Non possiamo nutrirci provocando il collasso dell’ecosistema. L’intero sistema deve cambiare. Il cambiamento potra avvenire quando inizieremo a vedere i nostri rifiuti come una risorsa preziosa e li tratteremo come tali. Vogliamo condividere il valore domestico e l’utilita dello huussi per ispirare tutti nel cercare soluzioni alternative che possano servire meglio il mondo in cui viviamo oggi”.
Il Padiglione del Bahrain
Come in tutti i paesi caratterizzati da climi molto caldi e umidi, anche nel Regno del Bahrain, arcipelago di isole situato nel Golfo Persico, vi è sempre stata una tradizione di sistemi costruttivi tradizionali per combattere il microclima causato dalle sue caratteristiche geografiche.
Tuttavia, a cominciare dagli anni 60, i sistemi di climatizzazione si sono ampiamente diffusi per proteggere gli abitanti dalle condizioni avverse, portando al progressivo abbandono delle tecniche tradizionali. Con un aumento della temperatura previsto di 5 °C entro la fine del secolo, la regione si troverà al limite sia della carenza idrica che delle condizioni di caldo estreme, rendendo l’uso di tali sistemi un’inevitabile necessità.
La mostra presentata nel padiglione del Bahrain, situato all’Arsenale, porta il titolo di “Sweating Assets” ed esplora la possibilità di avvalersi dei sistemi di climatizzazione in modo innovativo e creativo al fine di sfruttare il processo di deumidificazione dell’aria che viene immessa negli ambienti interni beneficiando della loro capacità di produrre acqua che può essere utilizzata nella creazione di ambienti eco-compatibili e raggiungere così un migliore equilibrio tra i progetti di sviluppo urbano e l’ambiente naturale circostante (figura 11).
Edifici destinati a uffici, ospedali, aeroporti, centri commerciali e data center utilizzano sistemi di raffreddamento che sono in grado di produrre elevate quantità d’acqua, solitamente scaricata nelle reti fognarie. L’obiettivo della mostra è quello di mettere i sistemi HVAC, finora isolati in sé stessi, in relazione con l’ecosistema, aspetto particolarmente rilevante in un paese che soffre di scarsità idrica, alleviando il fabbisogno attualmente soddisfatto da impianti di desalinizzazione con un impatto ambientale non trascurabile.
Curata dagli architetti locali Latifa Alkhayat e Maryam Aljomairi, la mostra analizza su differenti scale di interventi, dalla dimensione domestica a quella territoriale, il ruolo degli impianti di climatizzazione rispetto al più ampio ecosistema, mettendo in luce il rapporto tra le condizioni climatiche estreme in termini di caldo e umidità che caratterizzano il paese del golfo con il bisogno intrinseco di comfort all’interno degli edifici, dimostrando come il progetto dei sistemi di climatizzazione può essere ottimizzato riducendone l’impatto negativo sull’ambiente grazie a una migliore gestione delle risorse.
Il progetto del padiglione presenta una scenografia di un microambiente che simula le condizioni climatiche locali degli ambienti esterni ed interni in termini di temperatura, umidità e produzione di condensa. Una teca di vetro rappresenta un tipico edificio e simula il funzionamento reale del suo impianto di climatizzazione: l’aria umida dell’ambiente espositivo viene aspirata all’interno della teca mantenuta a una temperatura inferiore al punto di rugiada, provocando quindi la formazione di condensa.
Il modello costituisce quindi la rappresentazione degli ambienti confinati costantemente raffreddati che producono condensa. L’acqua prodotta viene raccolta e convogliata verso un plastico adiacente che rappresenta invece un paesaggio agricolo con canali di irrigazione che controllano il movimento dell’acqua (figura 12).
L’elevata quantità di condensa prodotta dai sistemi di climatizzazione a servizio degli edifici viene quindi esplorata per quanto riguarda il suo potenziale riutilizzo per alimentare le zone umide e le regioni agricole che necessitano di un approvvigionamento idrico, quindi contribuendo positivamente al più ampio bilancio ecologia. L’esposizione mostra quindi al pubblico la possibilità di implementare su scala urbana applicazioni innovative che non esistono ancora. L’obiettivo è quello di migliorare l’infrastruttura locale tenendo conto delle particolari condizioni climatiche. La pubblicazione “Sweating Assets: On Climate Conditioning and Ecology” completa la mostra fornendo analisi numeriche e analisi qualitative.
La mostra della Fondazione Prada
Presentata nella sede veneziana della Fondazione, la mostra “Everybody Talks About the Weather” analizza i significati del tempo meteorologico nell’arte visiva come punto di partenza per affrontare la questione dell’emergenza climatica, utilizzando insieme gli strumenti dell’arte e della scienza (figura 13).
Il titolo della mostra prende spunto da un manifesto della Lega degli studenti socialisti tedeschi apparso all’inizio del 1968 tra le strade delle città universitarie della Germania Ovest. Schierando il triunvirato rivoluzionario composto da Marx, Engels e Lenin, il manifesto dichiarava con tono di sfida “Tutti parlano del tempo. Noi no”.
Solo 50 anni fa il tempo era quindi l’ultima delle preoccupazioni, mentre oggi è difficile pensare a una questione alla quale dare più attenzione e importanza. E quando si dice “tempo”, ovviamente si vuole intendere la crisi climatica in atto. Il poster è esposto in mostra insieme a una reinterpretazione recente nella quale compaiono tre donne, Judith Ellens, Carola Rackete e Greta Thunberg, tutte impegnate per la sostenibilità, l’ambiente e la giustizia sociale, con la frase emblematicamente ribaltata: “Tutti parlano del meteo. Anche noi”.
Il curatore Dieter Roelstraete ha raccolto più di cinquanta opere di artisti contemporanei e una selezione complementare di lavori storici che tracciano il modo in cui il clima e il tempo hanno influenzato la nostra identità culturale. L’allestimento combina le due dimensioni della ricerca, quella artistica e quella scientifica. Ogni opera è accompagnata da un numero che rimanda a un pannello in cui le informazioni artistiche sono abbinate a testi e infografiche, sviluppati in collaborazione con il New Institute Centre For Environmental Humanities (NICHE) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che approfondiscono il contesto sociale e climatologico direttamente o indirettamente associato alle opere.
La mostra si sviluppa su due livelli del palazzo storico di Ca’ Corner della Regina. All’ingresso al piano terra, un grande ledwall accoglie i visitatori trasmettendo in loop le previsioni del tempo estratte da media tradizionali e online di tutto il mondo (figura 14).
Nelle sale al primo piano opere d’arte storiche condividono lo stesso spazio espositivo con opere recenti e nuove commissioni. La mostra rivela la costante attenzione degli artisti nel “parlare del tempo”, dai dipinti allegorici alle pitture en plein air fino alle recenti installazioni multimediali. Le opere sono presentate per nuclei tematici legati agli agenti atmosferici (vento, neve, pioggia, caldo, ecc.) e a temi come desertificazione, migrazioni, inquinamento e innalzamento del livello del mare.
Oltre ai pannelli esplicativi, all’interno del percorso espositivo una serie di “stazioni di ricerca” riunisce più di cinquecento libri, pubblicazioni scientifiche e articoli, oltre a una selezione di materiali video e interviste con studiosi e attivisti (figura 15). Questa documentazione permette al pubblico di consultare liberamente le varie fonti bibliografiche della vasta ricerca alla base di questo progetto e di approfondire le questioni scientifiche e culturali affrontate dalla mostra.
Questa seconda lettura alternativa offre una visione approfondita dei fenomeni fisici e dei processi ambientali evocati o esplicitamente affrontati dagli artisti e relativi a diversi periodi della storia umana (dalla piccola era glaciale dal XVI al XIX secolo al futuro di Venezia alla fine del XXI secolo) e ad aree geografiche e culture lontane (dalla desertificazione e l’espansione del Sahara all’impatto del ritiro dei ghiacci artici sulla vita degli Inuit).
La mostra e accompagnata da un libro di quasi 450 pagine pubblicato dalla Fondazione Prada e da un programma di conferenze in cui scienziati, autori e studiosi internazionali approfondiranno i temi esplorati nella mostra inserendoli in una prospettiva ancora più ampia.
Un’abitazione sostenibile per le emergenze umanitarie
Il famoso architetto inglese Norman Foster ha presentato il progetto di ricerca Essential Homes realizzato dalla sua fondazione insieme alla multinazionale Holcim (figura 16). Grazie a questa partnership è stato progettato e sviluppato un modello abitativo in grado di garantire condizioni di vita dignitose alle popolazioni colpite da conflitti e catastrofi naturali, come alternativa ai rifugi temporanei dove le persone sono spesso costrette a vivere anche per decenni.
Il modello offre sicurezza, comfort e benessere ed e al tempo stesso altamente sostenibile, con un’impronta di CO₂ inferiore del 70% rispetto alle strutture tradizionali. Per il progetto Holcim ha utilizzato una serie di soluzioni per l’edilizia sostenibile che garantiscono basse emissioni di carbonio, efficienza energetico e circolarità (figura 17). Per la costruzione sono stati utilizzati rotoli di fogli di cemento a basso contenuto di carbonio che, srotolati, fungono da involucro esterno e garantiscono la sicurezza fisica (figura 18).
I percorsi che collegano fra loro le soluzioni abitative sono invece realizzati in calcestruzzo permeabile e a basse emissioni di carbonio, con aggregati che assorbono la luce di giorno e riflettono la luce naturale di notte riducendo il consumo energetico e l’inquinamento luminoso. Per l’isolamento termico sono stati impiegati materiali ad alta efficienza energetica e basso contenuto di carbonio, che assicurano comfort termico e acustico. La circolarità della struttura e invece ottenuta con l’uso di materiali riciclati provenienti da demolizioni che rendono la base della costruzione più resistente alle intemperie. Inoltre, terminato il suo ciclo di vita, ogni componente del modello puo essere riutilizzato o riciclato (figura 19).
Un prototipo in dimensioni reali e collocato presso i Giardini della Marinaressa in Riva dei Sette Martiri mentre la mostra Time Space Existence presso l’European Cultural Center a Palazzo Mora presenta lo sviluppo del progetto. In linea con il tema della Biennale questa ricerca si pone l’obiettivo di dimostrare la possibilità di fornire un alloggio sostenibile ed accessibile a tutti.